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Rajmund Kolbe nacque l’8 gennaio1894 a Zduńska Wola nella Polonia centrale in una famiglia di modeste condizioni: il padre Juliusz era tessitore, la madre Mariann Dabrowska levatrice. Ebbero cinque figli, di cui due morti prematuramente. Rimasero Franciszek, Rajmund e Josef. Vista la situazione della famiglia i Frati Minori Conventuali, che avevano un convento nella vicina Leopoli, accolsero i due maggiori, Franciszek e Rajmund, perché compissero degli studi regolari nel loro Seminario. Mentre Rajmund decise in seguito di rimanere nell’Ordine, Franciszek scelse la carriera militare. Prese parte alla prima guerra mondiale e scomparve in un campo di concentramento. Pure Josef entrò dai Francescani con il nome di Alfonso.

Il 4 settembre 1910, Rajmund, iniziando il noviziato, prese il nome di Massimiliano e il 5 settembre del 1911 emise la professione religiosa. Studiò a Roma all’Università Gregoriana, laureandosi in filosofia nel 1915 nella Pontificia Facoltà di San Bonaventura, dove ottenne la laurea in teologia.

Fu ordinato sacerdote il 28 aprile 1918 a Roma. Tutta la sua vita rimase impegnata nella diffusione e nell’incremento del movimento mariano “Pia Unione di Maria Immacolata” da lui fondato con altri confratelli. Proseguì in questo impegno con il suo ritorno in patria nel 1919 e compiendo diversi viaggi, spingendosi, nel suo anelito missionario, fino in Giappone.

Il 19 settembre 1939, dopo che la Polonia era stata occupata dai tedeschi venne deportato nel campo di concentramento preventivo di Amtitz sul confine tedesco-polacco. Liberato l’8 dicembre dello stesso anno, venne di nuovo incarcerato il 17 febbraio 1941. Fu dapprima nelle prigioni di Pawiak a Varsavia, mentre il 28 maggio successivo venne internato nel campo di concentramento di Oswiecim, (Auschwitz). Era il numero 16670.

Un giorno, a fine luglio 1941, un prigioniero polacco riuscì a fuggire. Secondo l’inesorabile legge del campo, dieci prigionieri dovevano essere giustiziati. I condannati, scelti con il sistema della conta da 1 a 10, subivano una morte tremenda: rinchiusi nel cosiddetto blocco n. 13, vi sarebbero rimasti senza prendere cibo e acqua fino alla morte. Padre Kolbe non risultò fra questi, ma, scosso dal pianto di un sergente polacco, padre di famiglia, Franciszek Gajowniczek, si presentò al comandante del campo, chiedendo di poterlo sostituire e dichiarando di essere un sacerdote cattolico. Ascoltiamolo in questa sua testimonianza.

“Quando ci allinearono su un rango in un silenzio irreale, si sentiva la morte nell’aria. Nei nostri occhi si leggeva la paura, un terrore enorme. E cominciò la conta: minuziosa, spietata, crudele. Uno, due, tre……..dieci. E di nuovo: uno, due, tre……dieci. Un’eco beffardo scandiva il contare. Si tratteneva il fiato mentre i numeri erano lame brucianti. Quando su un prigioniero cadeva il numero dieci, questi doveva uscire dal rango: era condannato a morire in una lenta e atroce agonia”.

Cosa pensavi in quel momento?

“Non si poteva pensare: il cuore inseguiva un tragico filo di speranza, che quasi cancellava la pietà dentro una tensione di sopravvivenza. La condanna del vicino era la tua vita”.

Poi il contare terminò, i dieci erano stati scelti. Tu eri salvo.

“Il numero dieci non mi aveva sfiorato; ero rimasto nel rango dei salvati”.

Invece ti sei offerto per salvare un altro, prigioniero come te.

“L’avevano scelto. Il numero dieci gli era caduto addosso come una mazzata. Piangeva disperato”.

Perché l’hai fatto? Dove hai trovato il coraggio fino a decidere di morire?

“Rispondo con il silenzio. Del resto ogni decisione può essere un mistero. Soltanto la croce in quell’istante fu la mia forza. Pensai a quell’uomo, alla sua famiglia, ai suoi due bambini. Dovevo salvarlo”.

Quei violenti e superbi aguzzini che avevano fatto la conta cosa ti dissero?

“Per loro non eravamo uomini, ma numeri. Uno valeva l’altro. Mi misero con quelli che erano stati scelti e rimandarono l’altro nel rango dei salvati”.

Poi il lento viaggio verso la morte

“No, verso la vita. Il rumore dei nostri zoccoli era già un’eco lontana. Il lager diveniva una nebbia sfuocata su un vago orizzonte che dava ancora, nonostante tutto, pallidi riflessi di sole”.

Poi quei giorni tremendi in attesa…..

“Della morte. Mi rimaneva la missione di aiutare gli altri in quel cammino, mentre i nostri corpi si facevano sempre più deboli. Era la mia ultima missione. Certamente la più vera”.

Dopo quattordici giorni, il 14 agosto 1941, quattro erano ancora in vita, fra cui padre Massimiliano. Le SS decisero allora di intervenire con una endovenosa di fenolo. Padre Massimiliano tese il braccio pronunciando le sue ultime parole: «Ave Maria».